Proponiamo di seguito il contenuto dell'intervento di Luca Rastello (giornalista che scrive su diario), di ritorno dai Balcani, a un'assemblea tenuta nell'università di Torino.
Mette sul piatto sicuramente tante cose che non vengono fuori nei media. È da leggere con un planisfero davanti, ed è abbastanza lungo. Ma offre davvero delle nuove chiavi di interpretazione. Coordinamento universitario contro la guerra (facoltà umanistiche di Torino)
(Assemblea di mercoledì 21 aprile 1999 all’Università di Torino. Aula 34 di Palazzo Nuovo)
Luca Rastello. Giornalista.
Ci sono tre argomenti a cui vorrei accennare da porre al dibattito:
il primo è una domanda: il Kossovo è oggi il teatro, e sicuramente solo il primo teatro, di questa guerra ma è possibile pensare che gli interessi strategici che questa guerra coinvolge siano limitati al Kossovo o in generale alla Federazione Jugoslava ?
il secondo argomento è doloroso: è accennare alla domanda sul "che fare", domanda nobile ma che ci trova, secondo me, privati da questa guerra addirittura dei linguaggi critici ed analitici per reagire, per resistere a quello che sta succedendo. Il paradigma umanitario oggi viene previsto tra le armi dalle parti in guerra. L’aiuto umanitario, l’azione umanitaria fa parte anche di strategie belliche. Con questo bisogna fare i conti anche se è molto difficile e doloroso.
il terzo argomento - cercherò di essere veramente sintetico su tutti e tre, quindi mi perdonerete lo schematismo a cui sarò costretto che spero non offenda l’intelligenza - è la responsabilità o no del cosiddetto "popolo serbo", perché nel dibattito politico su questa guerra mi pare che si confrontino posizioni specularmente semplicistiche e ideologiche, a volte addirittura venate di propaganda, e credo sia il caso di aprire anche un dibattito sui linguaggi con cui andiamo a parlare di questa guerra, che sarà di lungo periodo.
Punto primo. Interessi strategici
Mi perdonerete un’immagine semplificatoria. E’ l’immagine di due assi che s’incrociano. Io credo che si possa dire che questa guerra negli attori è una guerra mondiale, gli attori di questa guerra sono mondiali; negli interessi strategici e nelle poste che sono in gioco è una guerra mondiale; nello sviluppo territoriale oggi è una guerra localizzata ma, lo dico con tristezza, ma con assoluta sicurezza, non rimarrà localizzata al Kossovo. Si può sperare che rimanga una guerra localizzata alle aree meridionali dei Balcani, ma coinvolgerà certamente altri stati: il Montenegro e l’Albania per primi, la Macedonia in seguito, ci sono rischi anche per la Bulgaria e per la Grecia.
Per almeno due parametri su tre siamo di fronte a una guerra mondiale. Bisogna prenderne atto. Il più problematico è forse il secondo che ho citato, gli interessi strategici in gioco. Io mi riferisco a delle analisi che non vengono sicuramente da ambienti che potremmo definire critici nei confronti della guerra edelle azioni militari, questo per appoggiarmi a una fonte non sospetta di partigianeria, il genere di partigianeria per lo meno nel senso in cui potrei essere partigiano io. Il generale Alfred Moisiu, il delegato, rappresentante dell’Albania alla Nato - un uomo che parla con estrema chiarezza -, dice per esempio che l’azione umanitaria della Nato è il preludio all’intervento di terra. Analizza le forze che vengono schierate sul territorio per l’azione umanitaria, reparti da combattimento oltre le prime linee, ridendo dell’informazione italiana che ci racconta che si utilizzino reparti di questo genere per portare sacchi di farina. E scrive anche come avverrà l’inizio di questa attacco di terra, e questo se serve lo racconteremo dopo. Ma soprattutto parla dal suo punto di vista di un asse strategico importante, politico, economico, culturale - non religioso, attenzione - che unisce in un sistema di relazioni di mercato, ma anche diplomatiche, Mosca, Belgrado e Atene. Il punto sensibile di quest’asse, chiamiamolo asse verticale Mosca-Belgrado-Atene, ma sono coinvolte anche la Bielorussia, l’Ucraina e altri paesi; però i tre i punti fondamentali dal punto di vista di un’analisi schematica del conflitto sono questi.
Il punto sensibile è Atene. La Grecia appartiene alla Nato, fa parte dell’Alleanza Atlantica, ma è divisa dalla Turchia da una conflittualità molto vecchia e molto forte e potenzialmente esplosiva. Atene è scossa da un movimento contro l’appartenenza alla Nato che non è soltanto un movimento popolare di massa, ma coinvolge i vertici dell’esercito. Atene è un alleato inaffidabile e decisivo. L’inimicizia con la Turchia fa di Atene oggi un punto estremamente sensibile.
Permettetemi una passeggiata in Asia, brevissima. Oggi la Turchia risponde agli interessi strategici degli Stati Uniti più di qualunque altro paese nel Mediterraneo. La dissoluzione dell’Unione Sovietica
nel ’91 ha creato repubbliche nel centro dell’Asia; se ne possono citare cinque, sono quelle che finiscono in stan: Uzbekistan, Kazakistan, Turkmenistan, Kirgisistan e Tagikistan. Sono repubbliche che dispongono di risorse energetiche e di risorse naturali così importanti da aver messo in ombra il ruolo dei paesi arabi. I più importanti giacimenti di petrolio oggi al mondo sono nel mar Caspio e in queste repubbliche. Sono repubbliche che hanno gas naturale quanto basta per alimentare almeno un terzo del pianeta. Dispongono della risorsa per cui, dicono molti analisti, si faranno le guerre del ventunesimo secolo: l’acqua e i luoghi di transito dell’acqua; e dispongono di una quarta risorsa, importantissima in un contesto come questo in cui l’economia criminale sempre di più infiltra quella legale fino a non esserne distinguibile: papavero da oppio. Ora questi cinque potenziali giganti economico-energetici hanno anche due caratteristiche importanti: sono islamici ma laici, come la Turchia; vi si parla la lingua turca. Addirittura in quattro di queste cinque repubbliche la lingua turca è la lingua della maggioranza della popolazione. E’ chiaro che la necessità di definire gli obiettivi strategici dei tempi che vengono, riconducendo queste repubbliche, così potenzialmente importanti, alle aree di influenza dell’occidente, sottraendole alla gravità naturale nei confronti della Russia e alla tentazione del fondamentalismo islamico, vede nella Turchia il ponte privilegiato. Questa è anche una ragione per cui la Turchia può permettersi di massacrare tutti i kurdi che vuole senza che nessuno dica niente.
Questo è l’elemento che rende delicata la Grecia. La passeggiata in Asia finisce tra quindici secondi, e comprende ancora un breve detour in Afghanistan. il primo confronto anche armato tra Stati Uniti e Russia per le linee di rifornimento energetico è la guerra in Afghanistan. In Turkmenistan e sul Mar Caspio si produce il petrolio e c’è già un controllo occidentale. Il Pakistan dà sull’Oceano Indiano ed è a controllo occidentale. Se si riuscisse a unire queste due terre, in modo da portare il petrolio e il gas naturale all’Oceano Indiano, e renderlo disponibile alle petroliere occidentali evitando il controllo russo, si sarebbe realizzato un corridoio che sottrae una delle possibilità più importanti da parte della Russia di esercitare una politica di potenza. Questo tentativo è stato realizzato con la guerra in Afghanistan. Si è creato un potere, i talebani, in grado di unificare il paese; i talebani sono stati alimentati, finanziati, politicamente legittimati dall’occidente.
Un esempio: questi gran produttori di papavero da oppio sono finanziati coi fondi del programma delle Nazioni Unite per la lotta alla droga (UNDCP), il cui presidente è Pino Arlacchi. E sono miliardi. Ma hanno anche diversi altri finanziamenti attraverso vie meno visibili.
Ora, la linea di deflusso di sud-est è realizzata, le grandi linee di oleodotto possono partire dal Caspio e arrivare all’Oceano Indiano.
Immaginate - è finita la passeggiata in Asia - che cosa succederebbe se ci fosse una seconda linea di rifornimento energetico che porta quelle risorse in Europa, evitando il controllo russo: succederebbe che la Russia perderebbe l’ultimo aggancio per esercitare una politica di potenza e per svincolarsi dal ricatto permanente dei prestiti occidentali del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
Ripeto: è una schematizzazione semplificatoria ed è uno degli interessi in gioco, non è una spiegazione di perché si fa la guerra, non teniamo teorie del complotto; però è un ragionamento per dire perché gli interessi sono mondiali.
Bene, questa via di deflusso energetico occidentale è un progetto del Fondo Monetario Internazionale che si chiama ottavo corridoio. Il paese capo-commessa è l’Italia, ed è una linea di comunicazione che prevede il più grande oleodotto nella storia d’Europa, un gasdotto e bretelle di comunicazione stradali e ferroviarie dal mar Nero all’Adriatico attraverso Bulgaria, Macedonia e Albania. Questo corridoio otto sottrarrebbe definitivamente alla Russia il controllo dei movimenti dell’energia; questo corridoio otto, a stretto controllo occidentale attraverso un’influenza atlantica su Albania, Bulgaria e forse una modificazione degli equilibri in Macedonia, metterebbe la Russia nell’angolo. Questa è una delle ragioni per cui su questo incrocio di assi si gioca anche la disperata resistenza che la Russia opera in questa guerra.
Allora, abbiamo parlato di un asse verticale e di un asse orizzontale che si incrociano a sud del Kossovo, non si incrociano in Kossovo, ma uno dei due deve spezzare l’altro perché siano definiti equilibri strategici, equilibri che investono addirittura una parte del pianeta che arriva fino all’Asia orientale.
Ora, supponiamo di voler spezzare l’asse verticale; non si può attaccare Atene perché è un alleato, perché fa parte della NATO e non si può attaccare la Russia perché - le ragioni sono ovvie sarebbe una guerra mondiale distruttiva con risvolti atomici. Si può attaccare la Jugoslavia, che è l’unico attaccabile. Non solo è l’unico attaccabile, ma deve essere attaccato, dà ragioni anche umanitarie, politiche, insomma un regime criminale genocida che fornisce ottime giustificazioni per un attacco presentabile davanti alla comunità
internazionale.
Questo è un ragionamento molto schematico, di cui vi chiedo scusa ma semplicemente per rendere conto del fatto che in questa guerra sono in gioco, indipendentemente da quali siano le cause scatenanti, dibattito che sarebbe astratto, interessi di portata mondiale, gli attori sono mondiali; questo per giustificare l’affermazione di inizio che, per almeno due parametri su tre, è in corso una guerra mondiale. Se vogliamo possiamo dire che la terza guerra mondiale è stata la guerra fredda e quindi si può sperare che la quarta non sia calda come le prime due; ma forse è un eccesso di ottimismo.
Secondo argomento: il paradigma umanitario
La situazione della guerra contemporanea, le strategie belliche contemporanee prevedono un uso strumentale delle tragedie umanitarie. La guerra in Bosnia l’ha dimostrato: i civili non un incidente di percorso ma l’obiettivo della guerra. Gli spostamenti di popolazione sono spostamenti di massa, biblici, deportazioni, stermini di massa; sono obiettivi della guerra, non danni collaterali. Oggi le masse di profughi sono usate da tutte e due le parti attenzione: da tutte e due le parti - come armi e come strumenti di manovra. Da un lato il regime jugoslavo usa le masse di profughi per destabilizzare i paesi potenzialmente ostili in questa guerra. In Macedonia, per esempio, di due milioni di abitanti, il 35 per cento, secondo la stima più ragionevole, sono albanesi; un carico di due o trecentomila profughi cambierebbe le percentuali demografiche su cui si regge l’equilibrio politico macedone, creando guerra civile. L’Albania è stata attraversata negli ultimi due anni da due guerre civili: nel ’97, con la crisi delle finanziarie private, e nell’autunno scorso dopo l’assassinio di Azem Hajdari. È un paese diviso in un nord e un sud politicamente, militarmente e anche criminalmente in conflitto tra loro.
Anche qui, uno spostamento di popolazione dal nord crea una situazione di potenziale guerra civile. Questo Belgrado lo sa e a questo fine utilizza strumentalmente la tragedia di massa dei profughi.
Ma non è diverso dall’altra parte. La ragione per cui i profughi vengono tenuti vicino al confine non è astrattamente, basta andare là per rendersene conto, che pensano di tornare a casa, che pensano che presto torneranno nelle loro case. Queste masse di profughi servono ad alimentare un’emergenza permanente che significa scontri di confine che porteranno all’entrata in guerra di altri stati, trasformando questa guerra locale in una guerra fra stati. L’Albania è pronta, ha già mobilitato le truppe, si avvale dell’impiego di forze internazionali sotto copertura. Il modello è quello dei contras in Nicaragua. L’esercito albanese oggi addestra e rifornisce di mezzi e materiali l’Uck.
L’Uck arruola a forza i profughi maschi. A Kalimash, all’uscita di Kukës, c’è un posto di blocco dove gli uomini vengono separati dalle loro famiglie e arruolati a forza. Questi profughi servono come carne da cannone; il generale Alfred Moisiu, delegato albanese alla NATO, lo dice apertamente, saranno la giustificazione per appoggiare una loro offensiva fallimentare con i famosi Apache e i mezzi da combattimento ravvicinato, saranno il pretesto per aprire un corridoio umanitario a forza all’interno del Kossovo, provocare una reazione serba, e giustificare una contro-reazione armata della NATO via terra. A Kukës, a Tropoje, nell’Albania settentrionale, i profughi servono anche come massa di manovra, come legittimazione della guerra e come serbatoio per l’Uck.
Oggi si dice che fare aiuto umanitario là è un dovere morale, perché per esempio solo a Kukës ci sono 140 mila persone che vivono su trattori, sotto teli di nylon, bambini, malattie curabili che rischiano di fare strage nei prossimi mesi. È vero, però un elemento che io pongo al dibattito, che è estremamente critico, difficile da valutare è questo: oggi intervenire lì significa anche stabilizzare questa situazione, significa fare la manutenzione di un’arma; per un certo verso, usando un’immagine un po’ forte, è un po’ come oliare un cannone.
Terzo punto. La cosiddetta responsabilità del popolo serbo
Allora, nelle piazze del pacifismo italiano, della resistenza a questa logica di guerra, si sente spesso dire "il popolo serbo non ha colpe". È una frase che contiene almeno due concetti ambigui e pericolosi: popolo e colpa, credo. Io non credo che esista un popolo serbo; i popoli che abitano la Serbia sono tanti, con appartenenze, ascendenze politiche e culturali, tradizioni e addirittura religioni diverse. L’operazione criminale di Milosevic, nel corso di dieci anni, è stata semplificare la complessità sociale della Serbia, ridurre una società complessa a un popolo. Quindi usare le parole di Milosevic oggi è un’operazione pericolosa, ideologicamente complice, anche se questo non avviene consapevolmente.
Non si può però sostenere che la società civile serba, così com’è configurata oggi, non abbia responsabilità. Sarebbe semplicistico. È un inganno, speculare all’inganno propagandistico atlantico, che crea nuovi Hitler a ogni cantone. Non servono le favole consolatorie sul popolo buono, innocente e bombardato. Serve analizzare quello che è successo in Serbia. In Serbia è stata realizzata un’operazione di pulizia sociale, prima ancora che etnica, che nel corso di dieci anni ha tacitato e culturalmente massacrato la maggior parte delle aree potenzialmente critiche. Ha ridotto al silenzio e alla fuga la borghesia cosmopolita, meno sedotta dal nazionalismo e dai massacri che quel nazionalismo di massa produceva in Bosnia e in Croazia e dalle potenzialità di distruzione della democrazia.
Io non sono d’accordo con i giornalisti che usano l’immagine "Milosevic come Hitler". Fra i giornali che usano quest’immagine c’è anche quello per cui io lavoro, che è diario, e infatti stiamo conducendo un dibattito interno. Non perché io mi schieri con Milosevic, ma forse perché è un’immagine consolatoria, perché rimanda a un modello storicamente già sconfitto, che richiede soltanto un aggiustamento militare.
Rimanda a una realtà che appartiene già al passato della politica e della storia, che la forza potrebbe rovesciare. Purtroppo il potere di Milosevic incarna un modello, proprio perché non è hitleriano, oggi molto più pericoloso. Milosevic rappresenta la commistione della gestione della cosa pubblica e del potere politico con la gestione della finanza criminale, dei capitali di provenienza illecita e la criminalizzazione complessiva del tessuto economico produttivo di un paese.
È un modello che ha incarnazioni e realizzazioni in tutto il mondo: in Russia, per cominciare, nell’Asia che abbiamo citato, nel terzo mondo in Nigeria, è un modello espansivo, pervasivo. E’ un modello di mafia che si fa stato scavalcando il vecchio modello italiano di condizionamento mafioso sulla politica.
In un clima di accesso immediato, accelerato al mercato selvaggio, l’unico ciclo economico che permette le accumulazioni rapide di ricchezza che stabilizzano la nuova classe di potere è il ciclo criminale. Per le mafie, schematizzando ancora a costo di offendere l’intelligenza di tutti, è molto più redditizio ed economico oggi assumersi direttamente la gestione della cosa pubblica. Milosevic e la sua cupola hanno realizzato in Serbia, attraverso la privatizzazione del credito, un sistema che ha permesso loro di impoverire la società civile, di drenare tutta la valuta pregiata in circolazione nella Jugoslavia, di impadronirsi di quote di controllo
in tutte le attività produttive realizzando una centralizzazione dell’economia che non esisteva nemmeno sotto il socialismo.
Paradossalmente, in un tempo di privatizzazione l’economia è centralizzata al potere politico che lo ha acquisito grazie alle speculazioni truffaldine realizzate nel sistema finanziario e fa oggi di Milosevic e dei suoi compagni d’affari, proprietari peraltro delle banche off-shore di Cipro, dove vengono riciclati i capitali delle mafie di tutto il Mediterraneo, un riferimento per la criminalità organizzata di mezzo mondo.
Allora, è il caso di dire: Milosevic non è Hitler. Per questo è ancora più pericoloso. E’ un modello più moderno, più attuale. In qualche modo la società civile, così come rimane dalla pulizia sociale che è stata fatta, ha trovato, a partire dagli intellettuali, per arrivare all’informazione, alla funzione pubblica e ai settori produttivi, i propri spazi di interesse in questo sistema. Hanno creduto di potersi arricchire. Dire che non ci sono responsabilità nella Serbia, è come quando cercano di dirci che gli italiani erano tutti antifascisti e c’era Mussolini, ma era un incidente della storia. Sono favole consolatorie alle quali non conviene cedere perché fanno velo alla comprensione di quello che sta succedendo.
Conclusioni
Finisco dicendo che è stata un’operazione criminale, illegittima e sbagliata iniziare questa guerra perché questa guerra era voluta da tutte le parti: era voluta dall’Uck, per realizzare il programma di indipendenza del Kossovo al di là delle scelte di diritto internazionale e per diventare la classe dirigente del nuovo Kossovo scavalcando le rappresentanze democratiche di quella popolazione; era voluta dalla Nato per ridefinire il disegno strategico del proprio controllo su quell’area; era voluta da Milosevic per consolidare il suo potere all’interno e perché, consapevole dell’importanza strategica di questa guerra, Milosevic sapeva di poter tirare in lungo e giocare il tutto per tutto senza perdere appoggi importanti. Iniziare questa guerra è stata un’operazione criminale. Purtroppo iniziare una guerra è come aprire una centrale nucleare: non basta poi chiuderla e pensare di aver risolto il problema. Ci sono processi che ormai vanno avanti e coi quali bisogna confrontarsi non più con le parole d’ordine astratte del passato perché sarebbe un’ingenuità ai limiti della connivenza.
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